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Il terremoto di Messina descritto dal grande medico e scrittore svedese Axel Munthe nel suo romanzo capolavoro: La storia di San Michele

 

   

 

Lunedì 28 Dicembre 1908 alle ore 4:20, un terremoto di magnitudo 7.1 della scala Richter si abbatté violentemente sullo Stretto di Messina provocando tra le 90 e le 120 mila vittime. Quello che verrà tristemente ricordato come uno dei più potenti sismi della storia italiana fu descritto dal medico di fama internazionale Axel Munthe (1857 – 1949) nel romanzo autobiografico “La storia di San Michele”, apparso nel 1929 e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1932. Queste le pagine del libro che descrivono in maniera palpitante e realistica i drammatici momenti successivi al sisma.

*  *  *  *

Il mio amico, il ministro svedese a Roma, mi fece vedere qualche giorno fa la copia di una mia lettera scritta quasi vent'anni addietro. L'originale diceva di averlo mandato al Ministero degli Esteri svedese per lettura e meditazione. Era una mia risposta ritardata ad una ripetuta richiesta ufficiale della Legazione Svedese, che diceva come dovevo almeno avere la decenza di accusare ricevuta della medaglia di Messina, che mi era stata gentilmente concessa dal Governo italiano per qualcosa che si supponeva avessi fatto durante il terremoto. La lettera diceva così:

«Eccellenza,
il principio che mi ha sempre guidato in fatto di decorazioni cavalleresche è stato, finora, quello di accettarle soltanto quando non ho fatto nulla per meritarle. Un'occhiata al Libro Rosso vi farà capire i notevoli risultati ottenuti per aver sempre seguito questo principio. Il nuovo metodo che Vostra Eccellenza mi suggerisce nella Sua lettera, di cercare cioè un riconoscimento pubblico per quel po' di lavoro utile che avrei potuto fare, mi pare un'impresa rischiosa e di dubbio valore pratico. Porterebbe soltanto confusione nella mia filosofia e potrebbe irritare gli Dei immortali. Me la svignai sconosciuto dai bassifondi di Napoli durante il colèra; intendo di far altrettanto dalle rovine di Messina. Non ho bisogno di nessuna medaglia commemorativa per ricordare ciò che ho visto».

 

MESSINA

Così com'è, devo ammettere che questa lettera è tutta una spacconata. Il ministro svedese non rese mai la medaglia di Messina al Governo italiano: la devo sempre avere in qualche cassetto, con la mia coscienza pulita e nessuna maggior confusione nella mia filosofia. Infatti non c'era nessuna ragione perché non dovessi accettare questa medaglia, perché quello che ho fatto a Messina fu ben poco in confronto di ciò che ho visto fare col pericolo della loro vita a centinaia di persone mai nominate e ricordate. Io stesso non correvo altro pericolo all'infuori di quello di morire o per fame o per mia stupidità. È vero che ho riportato per mezzo della respirazione artificiale un certo numero di persone in vita, quasi soffocate, ma ci sono pochi medici, infermieri e guardacoste che non abbiano fatto altrettanto senza nessuna ricompensa. So che da solo tirai una vecchia fuori da quella che era stata la sua cucina, ma so anche che l'abbandonai nella strada con le gambe fratturate, invocando aiuto. Certamente c'era poco da fare fino all'arrivo della prossima nave - ospedale, poiché non c'era più materiale di medicazione né medicinali disponibili. Ci fu anche la bambina nuda che trovai in un cortile: la portai nella mia cantina, dove dormì tranquillamente tutta la notte coperta col mio mantello, succhiando di tanto in tanto, nel sonno, il mio dito. La mattina la portai dalle monache di Santa Teresa; in quello che restava della loro cappella, c'erano già più di una dozzina di bambini sdraiati per terra, che strillavano dalla fame, perché durante i primi giorni non fu possibile trovare nemmeno una goccia di latte in tutta Messina. Mi meravigliavo sempre del numero di bambini salvi, raccolti dalle rovine o trovati per le strade. Sembrava che Dio onnipotente avesse accordato loro un po' più di misericordia che agli adulti. Essendo rotto l'acquedotto, non c'era nemmeno acqua, se non in qualche pozzo fetido inquinato dalle migliaia di corpi putrefatti sparsi per tutta la città. Niente pane, niente carne, quasi niente maccheroni, niente legumi, niente pesci: la maggior parte delle barche da pesca erano affondate o si erano sfracellate per il maremoto, che aveva spazzato la spiaggia portando via a centinaia le persone accovacciatesi lì in cerca di salvezza. Una gran parte di questi corpi furono rigettati sulla sabbia, dove giacquero per giorni, marcendo al sole. Anche il più grande pescecane che abbia mai visto (lo stretto di Messina ne è pieno) fu gettato sulla sabbia, ancora vivo. Assistei con occhi da affamato, mentre lo tagliavano in pezzi, sperando di afferrarne una fetta anch'io. Avevo sempre sentito dire che il pescecane è molto buono da mangiarsi. Nella sua pancia c'era l'intera gamba d'una donna con una calza di lana rossa e una grossa scarpa, come se fosse stata amputata da un chirurgo. Meglio non parlare di quello che mangiavano le migliaia di cani e gatti randagi, che giravano fra le rovine durante la notte, finché venivano acchiappati e divorati dai vivi appena che potevano averli nelle mani. Io stesso ho arrostito un gatto sulla mia lampada a spirito. Per fortuna c'erano in abbondanza arance, limoni e mandarini da prendere nei giardini. Il vino era copioso, l'invasione delle migliaia di cantine e negozi di vino cominciò proprio il primo giorno; la sera quasi tutti erano più o meno brilli, compreso io; era una vera benedizione, portava via la sensazione di fame e ci dava più coraggio per addormentarci. Quasi ogni notte c'erano delle scosse, seguite dal rombo delle case che crollavano e da rinnovate grida di terrore nelle strade.

Per lo più dormii bene a Messina, nonostante l'inconveniente di dover costantemente cambiare il mio alloggio notturno. Le cantine erano naturalmente i posti più sicuri, se si riusciva a vincere l'ossessionante paura d'essere intrappolati come topi da un muro crollante. Era ancora meglio dormire sotto un albero in un aranceto, ma dopo due giorni di pioggia torrenziale, le notti diventarono troppo fredde per un uomo il cui corredo stava tutto nello zaino che portava sulla schiena. Cercavo di consolarmi della perdita del mio prediletto mantello scozzese, pensando che probabilmente copriva abiti ancora più logori dei miei. Però non li avrei cambiati con dei migliori, anche se avessi potuto. Soltanto un uomo coraggioso si sarebbe sentito a suo agio con un abito decente fra tatti quei superstiti in camicia da notte, impazziti dal terrore, dalla fame e dal freddo, e del resto non avrebbe potuto conservarlo a lungo.

Che furti, ai vivi ed ai morti, assalti e perfino uccisioni avvenissero prima dell'arrivo delle truppe e della dichiarazione della legge marziale, non c'è da meravigliarsi. Non conosco paese dove questo non sarebbe successo in simili indescrivibili circostanze. A peggiorare le cose, l'ironia della sorte aveva voluto che, mentre delle centinaia di carabinieri ch'erano nel Collegio Militare soltanto quattordici scampassero vivi, la prima scossa aprisse le celle della prigione accanto ai Cappuccini a più di quattrocento delinquenti illesi, condannati a vita. È certo che questi avanzi di galera, dopo aver derubato i negozi per vestirsi e gli armaioli per armarsi, si davano alla pazza gioia con ciò che rimaneva della ricca città. Forzarono perfino la cassaforte del Banco di Napoli, uccidendo due guardie notturne. Però, tale era il terrore che prevaleva in tutti, che molti di questi banditi preferirono di costituirsi per essere rinchiusi nella stiva d'un piroscafo nel porto, piuttosto che restare nella città condannata con tutte le sue tentazioni.

Io, personalmente, non fui mai molestato da nessuno; al contrario, furono tutti gentili con me in modo commovente e mi aiutarono come si aiutavano a vicenda. Quelli che trovavano abiti o cibo erano sempre pronti a dividerli con chi non ne aveva. Da un ladro sconosciuto mi fu perfino regalata un'elegante vestaglia, uno dei più graditi regali che abbia mai ricevuto. Una sera, mentre passavo davanti alle rovine d'un palazzo, notai un uomo ben vestito, che gettava a due cavalli e ad un asinello, prigionieri nella loro scuderia sotterranea, qualche pezzo di pane e un mazzo di carote. Attraverso uno stretto spacco del muro potevo appena vedere gli animali condannati. Mi disse che veniva lì due volte al giorno, portando quel che poteva trovare. Lo spettacolo di questi poveri animali che morivano di fame e di sete gli era così doloroso, che avrebbe preferito ucciderli con la rivoltella, se ne avesse avuto il coraggio, ma non aveva mai avuto il coraggio di uccidere nessun animale, nemmeno una quaglia (forse interesserà quelli che amano gli animali sapere che questi due cavalli e l'asinello furono tirati fuori vivi il diciassettesimo giorno dopo il terremoto e che ritornarono in salute). Guardai con sorpresa il suo viso bello, intelligente e piuttosto simpatico e gli domandai se era siciliano. Mi rispose di no, ma che aveva vissuto in Sicilia per diversi anni. Cominciò a piovere a dirotto e andammo via. Mi domandò dove abitavo, e quando gli risposi in nessun posto, guardò i miei abiti fradici e offrì di ospitarmi per la notte: viveva lì vicino con due amici. Brancolammo fra immensi blocchi di muratura e mucchi di mobili sfracellati di ogni specie, scendemmo una gradinata e ci trovammo in una grande cucina sotterranea, fiocamente illuminata da una lampada a olio appesa al muro sotto un'oleografia della Madonna. Per terra c'erano tre materassi: il signor Amedeo disse che avrebbe gradito che dormissi sul suo; egli e i suoi due amici sarebbero rimasti fuori tutta la notte per cercare alcune cose sotto le rovine delle loro case. Ebbi una cena eccellente, il secondo pasto decente che avevo avuto dal mio arrivo a Messina. Il primo lo avevo avuto qualche giorno prima, quando, inaspettatamente, ero capitato nel giardino del Consolato Americano durante una gioconda colazione, presieduta dal mio vecchio amico Winthrop Chandler, che era arrivato quella mattina stessa col suo yacht carico di provvigioni per la città affamata.

Dormii profondamente tutta la notte sul materasso del signor Amedeo e mi svegliai al mattino col ritorno del mio ospite e dei suoi due amici dalla loro pericolosa spedizione notturna, pericolosa davvero perché sapevo che le truppe avevano ordine di far fuoco su chiunque tentasse di portar via qualcosa, anche dalle rovine della propria casa. Gettarono i loro fardelli sotto la tavola e si gettarono essi stessi sui materassi; quando me ne andai erano profondamente addormentati. Sebbene sembrasse stanco morto, il mio gentile ospite non si dimenticò di dirmi che avrebbe gradito che restassi con lui quanto volessi; e naturalmente non domandavo di meglio. La sera seguente cenai ancora col signor Amedeo: i suoi due amici erano già addormentati sui loro materassi, tutt'e tre dovevano essere di nuovo al lavoro notturno dopo mezzanotte. Non ho mai visto un uomo più amabile del mio ospite. Quando seppe che ero al verde si offrì subito di prestarmi cinquecento lire, e mi rincresce dover confessare che gliele debbo ancora. Non potei fare a meno di esprimere la mia sorpresa che si fidasse di prestare il suo denaro ad uno sconosciuto. Mi rispose con un sorriso che non sarei stato seduto al suo fianco se non avesse avuto fiducia in me.

Il pomeriggio seguente sul tardi, mentre mi trascinavo a quattro zampe fra le rovine dell'Hotel Trinacria in cerca della salma del console svedese, fui affrontato improvvisamente da un soldato che mi puntava contro il fucile. Venni arrestato e condotto al posto di guardia più vicino. Avendo superato la difficoltà preliminare di identificare il mio oscuro paese e avendo scrutato il mio permesso firmato dal prefetto, l'ufficiale di servizio mi lasciò libero, poiché il mio unico corpus delicti consisteva in un registro svedese mezzo carbonizzato. Lasciai il posto piuttosto inquieto, perché avevo notato lo sguardo scrutatore dell'ufficiale quando gli avevo detto che non potevo dare il mio preciso indirizzo, non sapendo nemmeno io il nome della strada in cui abitava il mio gentile ospite. Era già completamente buio, presto cominciai a correre, perché mi pareva di sentire dei passi furtivi dietro di me come se qualcuno mi seguisse, ma raggiunsi il mio ricovero notturno senz'altre avventure. Il signor Amedeo e i suoi due amici erano già addormentati sui loro materassi. Affamato come sempre, sedetti alla cena che il mio gentile ospite mi aveva lasciato sulla tavola. Avevo l'intenzione di star sveglio finché essi stessero per partire e di offrire il mio aiuto al signor Amedeo quella notte nelle sue ricerche. Mi stavo proprio dicendo che era il meno che potessi fare per ricambiare le sue gentilezze verso di me, quando ad un tratto sentii un acuto fischio e il rumore di passi. Qualcuno scendeva le scale. In un attimo i tre uomini addormentati balzarono in piedi. Udii un colpo, un carabiniere cadde d'in cima alle scale sul pavimento, ai miei piedi. Mentre mi chinavo rapidamente su di lui per vedere se era morto, vidi chiaramente il signor Amedeo che puntava la sua rivoltella contro di me. Nello stesso istante, la stanza si riempì di soldati, udii un altro sparo e, dopo una disperata lotta, i tre uomini furono sopraffatti. Mentre il mio ospite mi passava davanti ammanettato, con una solida corda intorno alle braccia e alle gambe, alzò la testa e mi guardò con un lampo selvaggio di odio e di rimprovero, che mi fece gelare il sangue nelle vene. Una mezz'ora dopo ero di nuovo al posto di guardia, dove venni rinchiuso a chiave per la notte. La mattina dopo venni interrogato ancora dallo stesso ufficiale, e senza dubbio debbo la mia vita alla sua intelligenza. Mi raccontò che i tre uomini erano malfattori condannati a vita, fuggiti dalla prigione vicina ai Cappuccini, tutti “pericolosissimi”. Amedeo era un famoso bandito, che aveva terrorizzato per molti anni i dintorni di Girgenti, con un bilancio di otto omicidi. Era anche stato lui e la sua banda a forzare il Banco di Napoli e ad uccidere i guardiani la notte precedente, mentre io ero profondamente addormentato sul suo materasso. I tre uomini erano stati fucilati all'alba. Avevano chiesto un prete, confessati i loro peccati ed erano morti senza paura. Il maresciallo disse che voleva complimentarmi per la parte importante che avevo avuto nella loro cattura. Lo guardai negli occhi e dissi che non ero orgoglioso della mia opera. Mi ero convinto già da lungo tempo che non ero adatto a far la parte di accusatore e meno ancora quella di esecutore. Non era affare mio, forse era il suo o forse anche non lo era. Dio sapeva come colpire quando voleva, sapeva prendere una vita come sapeva darla.

Disgraziatamente per me, la mia avventura arrivò all'orecchio di qualche giornalista che gironzolava intorno alla Zona Militare (nessun giornalista poteva entrare nella città in quei giorni e per una buona ragione) in cerca di notizie sensazionali, tanto più gradite quanto più incredibili. Certamente questa storia sembrerà abbastanza incredibile a coloro che non erano a Messina durante la prima settimana dopo il terremoto. Soltanto una fortunata mutilazione del mio nome e della mia nazionalità mi salvò dal diventare famoso. Ma quando quelli che conoscevano bene il lungo braccio della Mafia mi dissero che questo non mi avrebbe salvato dall'essere assassinato se fossi restato a Messina, veleggiai il giorno seguente con alcuni guardacoste, attraverso lo stretto, verso Reggio.

Anche Reggio, dove ventimila persone erano state uccise di colpo dalla prima scossa, era indescrivibile e indimenticabile. Ancora più terrorizzante era lo spettacolo dei piccoli villaggi sulla costa sparsi fra gli aranceti, Scilla, Canitello, Villa San Giovanni, Gallico, Archi, San Gregorio, prima forse il più bel luogo d'Italia, allora un vasto cimitero di più di trentamila morti e parecchie migliaia di feriti, che giacquero fra le rovine durante due notti di pioggia torrenziale seguite da una tramontana assiderante, assolutamente senza assistenza e con centinaia di esseri seminudi che correvano come pazzi per le strade, strillando per la fame. Più al sud l'intensità della convulsione tellurica sembrava aver raggiunto il suo massimo grado. A Pellaro, per esempio, dove dei suoi cinquemila abitanti soltanto duecento scamparono, non si poteva nemmeno distinguere dove erano state le strade. La chiesa, piena zeppa di gente terrorizzata, crollò alla seconda scossa uccidendo tutti. Il cimitero era cosparso di bare spaccate, letteralmente gettate fuori dalle fosse: avevo già visto lo stesso orrendo spettacolo nel cimitero di Messina. Sui mucchi di rovine della chiesa sedevano una dozzina di donne, tremando nei loro cenci. Non piangevano, non parlavano, stavano lì con le teste chine e gli occhi socchiusi. Ogni tanto una di esse alzava la testa e fissava con occhi vuoti un vecchio cencioso prete che gesticolava fra un gruppo d'uomini lì vicino. Ogni tanto alzava il pugno con una terribile maledizione in direzione di Messina, attraverso lo stretto: Messina la città di Satana, Sodoma e Gomorra insieme, la causa di tutta la loro miseria. Non aveva sempre predetto, lui, che la città dei peccatori finirebbe col...? Una serie di gesticolazioni sussultorie e ondulatorie con ambedue le mani per aria non lasciava nessun dubbio su quello che aveva predetto. Castigo di Dio! Castigo di Dio!

Detti un piccolo panino, tolto dal mio saccapane, alla donna che mi stava accanto con un bambino in grembo. Lo afferrò senza dire una parola, trasse subito di tasca un'arancia, me la porse, staccò con un morso un pezzetto del panino per metterlo in bocca alla donna dietro di lei che stava per diventare madre, e cominciò a divorare voracemente il resto come un animale affamato. Mi raccontò con voce bassa e monotona che lei, con il bambino al petto, si era salvata non sapeva come, quando la casa era crollata colla prima “staccata”; che aveva lavorato fino all'indomani per cercare di tirar fuori gli altri due suoi bambini e il loro padre dalle rovine: aveva sentito i loro gemiti finché non s'era fatto giorno. Poi era venuta un'altra “staccata” e tutto fu silenzio. Aveva un brutto taglio sulla fronte, ma la sua “creatura” era completamente salva, grazie a Dio. Mentre parlava mise a poppare il bimbo, un magnifico maschio, completamente nudo, forte come Ercole bambino, niente affatto incomodato da quanto era successo. Nel cestino accanto a lei un altro bambino dormiva sotto qualche fuscello di paglia marcia: l'aveva raccolto per la strada, nessuno sapeva di chi fosse. Mentre mi alzavo per andarmene, il bambino senza madre cominciò a piagnucolare; essa lo strappò dal cestino e lo mise all'altro seno. Guardai l'umile contadina calabrese dalle membra forti e dal petto largo con i due splendidi bambini che poppavano vigorosamente ai suoi seni e ad un tratto ricordai il suo nome. Era Demetra della Magna Grecia dove era nata, la Magna Mater dei Romani. Era la Madre Natura: dal suo largo petto correva, come una volta, il fiume della vita sopra le fosse dei centomila morti. O Morte, dov'è la tua spada? O Tomba, dov'è la tua vittoria?

 (p. 388 – 397)

 Axel Munthe, La storia di San Michele, [Milano] Ed. Garzanti, [1943], 26 ed., 502 p.

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 27-05-17